Diapason · 2024
Il trittico fotografico di Pino Musi è formato da immagini che mostrano, in secondo piano, pareti bianche a cui poter riconoscere il valore di metonimie di altrettanti luoghi: la galleria espositiva, la cella di una prigione, la cappella. Tutti e tre questi luoghi sono caratterizzati come spazi extra-ordinari: c’è una soglia, un limes, che si oltrepassa per accedervi, un allontanamento dai luoghi della vita quotidiana, dai tempi, dalle norme e dai valori che li regolano. Inoltre, questi spazi sono tali da imporre al fruitore delle pratiche rituali, codificate, che eccedono l’azione puramente funzionale e acquistano una valenza fortemente simbolica, sebbene di diverso tipo: estetico, giuridico, religioso. Si tratta dunque di esperienze liminali (la fruizione estetica, la detenzione, il culto) a cui segue il momento della reintegrazione, il ritorno alla normalità. Libere e facoltative quelle religiose ed estetiche, coercitive e forzate quelle detentive. Ma tutte e tre presuppongono un principio di autorità riconosciuto, esaltato per di più nel fatto che i tre spazi sono inalterabili e immodificabili da chi ne fruisce.
In rapporto alle pratiche di destinazione, questi luoghi sono sia spazio fisico, che può esser tastato, misurato, percorso, fotografato, sia spazio significativo, che travalica se stesso: quello che viene organizzato dalle azioni, dai gesti e dalle parole per esprimere un contesto. Da questo punto di vista, lo spazio non è un semplice contenitore, ma un campo di segni e, pertanto, un campo di possibili connessioni. Un attivatore simbolico e, nello stesso tempo, un principio disciplinare. Gli spazi dell’esposizione del simbolico, come possono essere una galleria d’arte, una prigione, un luogo di culto, modulano la gestualità e le posture dei corpi che accoglieranno. Tali luoghi si configurano come spazi intenzionali, cioè come istanze che modellano la loro stessa fruizione. Questo spazio intenzionale, simbolico e rituale, modellato da istanze di autorità, non è uno spazio di rappresentazione, ma è il luogo che fonda degli atti, predisponendo esperienze possibili, determinandone il senso e disegnando uno spettro di significati. In quanto condizione di ogni esperienza possibile, lo spazio è il milieu che predispone e attiva l’interazione tra corpo e ambiente. Queste immagini, che prelevano le tracce di tali campi di possibilità, non riproducono degli ambienti, ma ne indagano e interpretano le potenzialità in quanto spazi che stimolano o limitano - e sempre disciplinano - eventuali connessioni.
I luoghi sono mostrati vuoti. Ciò che occupa la scena è soprattutto un dispositivo che predispone gesti, posture, azioni, sguardi. Lo spazio focalizzato è quello della parete – schermo archetipo – che ospitando aperture, interstizi, diaframmi, nicchie, mobiletti, superfici aggettanti, modula e organizza lo spazio di azione, impostando e indirizzando le pratiche “rituali” cui il luogo è preposto, indicando le relazioni potenziali che elementi architettonici e oggetti presenti assumono con la corporeità. Una corporeità totalmente assente dalla scena, ma evocata in quanto soggetto cui le aperture e le istanze aggettanti della parete si indirizzano. In particolare, l’attenzione è portata sulle geometrie che modellano questi spazi rituali, sulle analogie formali, quasi alla ricerca di un’essenza minimale che, indagando il topos – il luogo fenomenico – si volge ad attingere un’intuizione della sfuggente chōra, lo spazio originario e anacronico, il principio formale, ciò che rende possibile la natura di un luogo, la sua dimensione immateriale. La chōra è la matrice feconda generatrice di forme, che precede il farsi ‘cosa’ del mondo, il luogo capace di tenere insieme il concreto e l’astratto, il sensibile e l’intelligibile, lo spazio dove luogo, soggetto e cose partecipano l’uno dell’altro.
Oltre alla parete, nella sua struttura “intenzionale” nei confronti di soggetti assenti, l’altro protagonista di questo trittico è il montaggio, principio costruttivo e apparato compositivo del pensare per immagini. È nel montaggio simultaneo che emergono le analogie, gli schemi geometrici ripetitivi, gli spazi interstiziali, la sequenza degli schermi piatti in cui si ritagliano le forme pure che modellano luce e ombra, aperture e sporgenze. La compresenza, allo sguardo dello spettatore, di oggetti di simile forma geometrica, crea una sorta di cortocircuito tra i luoghi, così diversi, cui sono collocati.
Marisa Prete