Pino Musi

Phytostopia (work-in-progress)


In città la natura non è naturale ma artificiale, anzi addirittura simbolica. La sua presenza nell’ambito urbano (e gran parte del globo è ormai urbanizzato), dal balcone fiorito al grande parco cittadino, ricorda dialetticamente la natura primigenia scomparsa lì ma anche extra muros. Affinché la natura – senza diritto di cittadinanza nel contesto densamente edificato – venga accettata, occorre ovunque, come insegna l’urbanistica moderna, disciplinarla: aiuole, allee, giardini, parchi, squares, piante solitarie o raggruppate – l’insieme del “verde” urbano sapientemente distribuito è sottoposto a un controllo permanente. Ciò vale pure per i giardini verticali e per i muri vegetali, che hanno fatto la loro comparsa verso la fine del XX secolo in gran numero: essi si impongono in quanto copertura e decorazione “naturale” della materia architettonica inerte, come se la città, comunque conscia dell’importanza della natura, avesse optato per un uso creativo di quest’ultima “indossandola” a mo’ di prezioso pullover.
Questo fenomeno letteralmente superficiale, che esige una attenta interpretazione, esprime bene l’odierna “religione della natura” propria di una civilizzazione post-industriale come la nostra che ha esternalizzato il vero contatto – difficile, traumatico, costoso – con ciò che, in quanto natura residuale, è sopravvissuto al “progresso” (e rimane pertanto sfruttabile). Esporre, celebrare, mettere al centro dell’attenzione la natura miniaturizzata attraverso i lembi di verde, disseminati in luoghi strategici, identifica queste azioni come un mero riflesso compensatorio. Coprire una intera facciata di vegetazione crea il simulacro di un Eden, una natura-immagine integrata nel labirinto iper-organizzato delle metropoli. Il fenomeno, di per sé, non è nuovo: già nell’ormai lontano Ottocento, la natura “dava spettacolo”, come ricorda l’esempio delle Buttes-Chaumont. Lì, infatti, nel cuore di Parigi, nacque nel 1867 una finta montagna dotata di una grotta artificiale, di un laghetto e di una cascata ugualmente artefatti, il tutto incastrato ad arte in un gigantesco parco-ready made di cemento armato.
Già Leopardi sapeva invece che la natura autentica è ben altro: è (anche) violenza, indifferenza, fonte di minacce brutali, che mettono a repentaglio la vita degli esseri umani e degli animali. La “salute” stessa della natura pareva al poeta imperfetta, al punto da considerare addirittura “ogni giardino quasi un vasto ospedale”. Lo stato di “sofferenza” permanente del mondo vegetale rilevato da Leopardi e i segni della mutabilità, dell’invecchiamento della natura, scompaiono invece nella natura-immagine inventata negli ultimi decenni. In verità, la natura catalogata nel discorso scientifico (anche in questo caso l’idea dominante è il controllo e lo sfruttamento) e la natura-immagine nella sfera urbana rappresentano ambedue strategie nate per occultare il lato meno conosciuto della natura, quello anarchico e incontrollabile.
Esposto alla crisi del Covid-19 a Parigi, prigioniero dell’intervallo temporale e della città in quarantena, l’occhio di Pino Musi è stato attratto dall’irruzione di una forma sorprendente di scompiglio. Gli spazi di verde messi a bella posta a mo’ di schermo dinanzi allo sguardo degli abitanti e dei turisti, quei “tessuti” vegetali eleganti onnipresenti e riprodotti sulle riviste stampate in carta patinata, sembravano trasformati in superfici goffe, in escrescenze caotiche. L’ironia involontaria di una natura diventata ribelle, di una natura quasi “malata” sincrone con la malattia dell’umanità tutta, ha permesso un “ritorno alla natura” inaspettato. Mentre prima della pandemia il (finto) dialogo tra architettura e città, da una parte, e natura, dall’altra, era celebrato nella forma simbolica del muro vegetale (già di per sé un ossimoro), ora il manifestarsi di una natura ben diversa era fonte di totale scombussolamento.
Il fenomeno imprevisto della natura implosa e indocile, magistralmente captato nelle fotografie di Musi, ha tantissimo da raccontarci. Si tratta, per cominciare, di una allegoria dell’infezione globale, della vita umana minacciata da un virus che possiede delle origini naturali e nel contempo cultural-tecnologiche. Il pericolo di caos assoluto dovuto a un intruso microscopico attaccava quegli stessi schermi giganteschi che simboleggiavano il controllo sulla natura, quei dispostivi indirizzati ai nostri occhi che, in quella precisa fase documentata da Musi, dovevano confrontarsi con un terribile clinamen. Se la trionfante natura-immagine esprimeva nel cuore della città la sicurezza e la potenza dell’uomo-costruttore, il disgregarsi dell’unità formale dei muri vegetali appare quale metafora di una possibile sconfitta della civiltà tout court.
Accanto a questa vena “apocalittica” (anch’essa in linea con l’atmosfera dei giorni della pandemia) occorre però sottolineare anche la comparsa di una bellezza inattesa, di aspetti della natura tuttora inspiegabili. La qualità estetica in gioco, la direzione entropica di una natura che fa “ciò che vuole”, va ben oltre una difformità “barocca”. Il soffermarsi sui “tappeti” organici dei muri vegetali parigini sorpresi da Musi, su di una materia viva dai margini irregolari e sottoposta a una crescita abnorme rievoca il magnifico vortice del San Giorgio londinese di Paolo Uccello, un dipinto in cui la forma vorticosa, violenta e travolgente, sembra esprimere il lato insondabile della physis del mondo abitato.
La terribile esperienza del Covid-19 rispecchiatasi nella crisi dei muri vegetali, che non obbediscono più alla volontà umana, assume però – ed è qui che il medium fotografico nell’utilizzo che ne fa Musi è estremamente prezioso – una qualità extra-ordinaria e si muta in momento privilegiato per la riflessione. La natura disordinata, che di solito non si incontra nel mondo urbanizzato, funge in altri termini da fonte intellettiva per l’osservatore.
Esiste infine nella breve serie di Musi un “piccolo” motivo molto significativo: la finestra. In due fotografie l’immensa superficie vegetalizzata sembra voler “divorare” una minuta finestra. La storia dell’arte (e non solo quella) insegna che la finestra è l’occhio di un edificio come gli occhi si potrebbero definire le finestre del viso umano. Dürer ha colto quest’analogia nel dettaglio di un ritratto (realizzato per un amico umanista) nel quale il riflesso della finestra nell’occhio appare con evidenza come espressione della riflessività. Una prima lettura rapida delle finestre sommerse dal verde coinciderebbe con l’idea che queste ultime rappresentino proprio noi, noi umani esposti alla morte, alla possibilità cioè di scomparire. Poiché queste finestre restano visibili in extremis, lo stesso motivo può essere interpretato pure come simbolo della resistenza umana: anche laddove la natura si fa minacciosa continuiamo a “guardare avanti”.
L’intelligenza critica delle opere di Musi apre comunque, a nostro avviso, a ulteriori orizzonti. I generosi muri vegetali, che ricoprono la superficie di edifici spesso emblematici o situati in contesti urbani di prestigio, sono in primo luogo schermi, ovvero dispositivi che, invece di proporre messaggi iconici, mostrano la natura viva. Costruiti con precisione e alimentati da sistemi sofisticati (ad alto costo ecologico), questi schermi molto speciali rinchiudono la natura in gabbie geometriche e la rendono fruibile in chiave frontale. Quando l’occhio di chi attraversa la città incontra la vegetazione incollata al muro per un attimo pare possibile vedere la natura e si vorrebbe quasi felicitare i designer, gli architetti-paesaggisti, i giardinieri, i politici che propongono questo “dono”. Invece, con il vis-à-vis inusuale, diventato entropico, e immortalato all’improvviso dalle immagini di Musi, ciò che realmente si manifesta è una panne o una deviazione, poiché quel che entra in crisi è proprio il meccanismo abituale della frontalità. La forma geometrica – il muro – è comunque anche la finestra brunelleschiana e albertiana, cioè l’immagine-chiave del soggetto moderno all’origine della civiltà occidentale, un soggetto che controlla, misura, organizza, costruisce. Finché inventiamo e installiamo schermi, finché disegniamo il nostro mondo in modo razionale, noi umani restiamo potenti e manteniamo il dominio sulle cose. Nel momento invece in cui quella superficie definita con precisione (schermo, muro) è intaccata, deformata, smangiucchiata dal verde, nel momento in cui la visibilità decresce e rischia di sparire (vedi la finestra sempre più piccola), la magnifica costruzione e narrazione della potenza illimitata dell’io risulta illusoria.
La recente pandemia è stata una “finestra temporale” per fortuna superata. Visto che anche la vita umana sulla terra è una “finestra temporale”, la serie di Musi mette in evidenza un mondo in bilico. Da un lato, il tutto può essere letto come una vanità. Anche le nostre costruzioni più vistose restano fragili, effimere, e lo sono soprattutto quando esposte alla natura, che non è ovviamente quella dell’Ersatz iconico-tattile prodotto dalla società dello spettacolo. Da un altro lato, l’occhio-finestra sopravvive malgrado tutto e registra la somma fragilità dell’epoca odierna. Chi si immedesima nella mirabile Phytostopia di Musi non crederà più in modo naïf che la natura-immagine sappia davvero, come promette, far vedere la Natura. La lezione è la seguente: nei momenti di crisi è piuttosto la natura stessa, la natura incontrollata e anarchica, che ci fa vedere la realtà.

Michael Jakob
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