Pino Musi

Polyphōnia · 2019 / 2025


È di luce e di misurato ritmo che vive la fotografia di Pino Musi. Sin da quando esplorava, giovanissimo, lo spazio e i gesti del teatro d’avanguardia, interrogando nei primi anni ottanta del secolo scorso le ombre e i turbamenti di una scena dalle geometrie sempre variabili, Musi costruisce le sue visioni di architetture, di paesaggi, di pagine antiche e di volti, sempre con la stessa urgenza, quella di mostrare non ciò che gli occhi vedono ma ciò che lo sguardo distingue, quella forma, stabile ma non immota, che diventa immagine, una scrittura di luce che, inevitabilmente, ci riguarda, ci guarda e ci coinvolge. Nel rigore di un bianco e nero che nulla concede alla facile malinconia del ricordo, che cerca l’astrazione analitica persino nell’incertezza delle nebbie o nel mutare delle espressioni e delle emozioni (La séance, 2017), la fotografia di Musi sta in singolare equilibrio tra la fermezza del giudizio e l’azzardo dell’invenzione, è il frutto, coltivatissimo, di un calcolo e di un imprevisto in cui si rinnova, senza enfasi ma con fermezza, il progetto moderno dell’arte, alla cui radice c’è modus, parola in cui sta il limite ed anche il ritmo. Il ritmo del tempo presente, di cui Polyphōnia restituisce adesso le tensioni, i pieni e i vuoti, le inattese armonie.
Collocandosi fin dal titolo fuori da ogni facile identificazione con l’immediato della cronaca, Polyphōnia è una ricerca che, seguendo una consolidata metodologia, Pino Musi ha sviluppato nel tempo con grande determinazione. Si tratta di un progetto con cui, a partire dal 2018, il fotografo ha voluto dare dignità di visione alle nuove periferie, a quelle espansioni urbane che dilatano il perimetro, sempre incerto, delle grandi città. Un lavoro già in parte confluito in un libro dalle proporzioni auree, Border Soundscapes (2019), che Musi ha condotto soprattutto ai confini di Parigi, città in cui da anni vive e lavora, come pure sui bordi sfrangiati di Anversa e di Berlino. In realtà poco, o forse nulla importa il dove o il quando: non ha, non dà senso identificare di quale banlieu (che, come ha ricordato Jean-Luc Nancy, è il luogo del bando e del banale), ciascuna immagine ci restituisca una prospettiva e un orizzonte. Ogni presa fotografica si nega al gioco rassicurante del riconoscimento. E questo non solo perché è l’uniformità (la banalità, appunto) dell’edilizia a caratterizzare troppo spesso il recente sviluppo delle città: più radicalmente, Musi ha scelto, ed è questa una sua modalità operativa tante volte dichiarata e argomentata, di sottrarre le sue immagini urbane alle temperature e agli inconvenienti di uno specifico contesto, adoperando con precisione chirurgica “la mano invisibile del digitale”. Non si tratta certo di un’operazione di maquillage, l’intenzione non è quella di addolcire le contraddizioni o di mascherare la brutalità dei contrasti, al contrario. Nell’aria soffocata dalla potenza perentoria del cemento, nelle fenditure che spaccano senza motivo apparente la compattezza della forma, nelle stranianti epifanie di un colonnato, residui e invenzioni che dicono di un’assenza irrisolta, non si manifesta alcuna indulgenza, non si allude ad alcun racconto di redenzione. Piuttosto, è askesis ciò che Musi mette ostinatamente in opera. Quell’ascesi che secondo Harold Bloom i poeti usano per esorcizzare The Anxiety of Influence, e che per il fotografo è soprattutto (auto)disciplina, una pratica di riduzione e di correzione che non riguarda mai la superficie, ma ha piuttosto a che fare con la ricerca di una verità nascosta.
“Togli tutto ciò che è superfluo” suggeriva Plotino, e Musi compie ogni volta con serietà il suo rituale di purificazione elettronica senza però rinunciare all’inquietudine della curva, a quella linea obliqua che Mondrian aveva bandito in quanto organico vettore di caos, di un movimento che, invece, opportunamente si annida nelle immagini di Polyphōnia. E non solo perché di tanto in tanto, nel silenzio intransitivo delle architetture, si intravedono spettatori senza volto, che sono un filtro (Stoichita) in grado di “problematizzare lo sguardo”, reso ancora più acuto dall’occasionale apparizione, solo apparentemente incongrua, di trame e forme vegetali, brani di un vivente silenzioso e inesorabile.
I fotografi, lo ha notato Denis Roche, sono prima di tutto dei viaggiatori, dei portatori di luce in movimento che formano quasi uno “sciame di lucciole accorte. Lucciole occupate nella loro illuminazione intermittente, che sorvolano a bassa quota i turbamenti dei cuori e degli spiriti dell’epoca contemporanea”. Pino Musi, che ha incontrato nelle sue fotografie i luoghi dell’archeologia e del sacro e i templi della tecnologia, che ha attraversato le campagne dell’Agro Nocerino Sarnese e quelle della Côtes d’Armor, che ha esplorato la solitudine dell’Asinara e del Sulcis e la frenesia delle città, nuove e antichissime, della Cina, appartiene a quella specie, ormai rara, di viaggiatori che non cerca conferme, che non vuole riconoscere ma conoscere. “Dopo tutto – ha scritto Anne Carson – l’unica regola del viaggio è: non tornare come sei partito. Torna diverso”.
Le immagini che compongono l’orizzonte di Polyphōnia sono documenti di questo mutamento, ciascuna di esse dichiara uno spostamento, un passaggio, una interpretazione del motivo così compiuta da poter affrontare la solitudine della pagina e tanto coerente da costituire una nota sullo spartito della parete. Come era accaduto in occasione della Biennale Architettura di Venezia del 2012, dove le facciate di significativi edifici milanesi erano state montate in un lunghissimo polittico orizzontale (Facecity Scroll), anche in questo caso ogni immagine rafforza e intensifica l’altra. La accentua perché, come suggeriva Didi-Huberman in Testi d’aria e di pietra, quando si costruisce un testo o un’immagine, un’opera, non si tratta di dire sempre la verità, ma “di accentuarla. Di illuminarla – di sfuggita, in maniera lacunosa – attraverso istanti di rischio”. Di nuovo, il lavoro del fotografo è quello di dare luce, di far vedere. Un compito, Musi lo sa bene, che comporta la responsabilità della scelta e dello scarto. Ci sono cose che resteranno nell’ombra, immagini che non vedranno la luce e però, questa è la soluzione che Polyphōnia ci propone, di ciò che non si mostra resta traccia nell’accordo ogni volta diverso che il suono di ciascuna immagine trova con il suono di tutte le altre. “Quando è che una cosa diventa un’altra?” si è chiesta Antonella Anedda nelle pagine di Geografie, ed è una domanda che riecheggia negli intervalli di una visione fotografica in cui ogni volta possiamo sperimentare il nostro ritmo e il nostro desiderio.
Guarda, ascolta. Polyphōnia.

Stefania Zuliani
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